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Le cose buone nascono dalla nostra terra

Campegine: dalla terra alla tavola

Campegine: dalla terra alla tavola

PRODOTTI TIPICI

La millenaria vocazione agricola del territorio campeginese ha favorito lo sviluppo di industrie dedite alla trasformazione dei prodotti della campagna, alcune delle quali, non solo sono sopravvissute, ma rappresentano ancora oggi l’elemento distintivo dell’economia locale. È il caso dell’industria casearia che annovera cinque caseifici: Latteria Sociale Case Cocconi, Società Agricola Codeluppi Bruno, Latteria Sociale Lora, Caseificio Agricolo del Milanello Terre di Canossa, Latteria Sociale Nuova Lago Razza, la cui ragguardevole produzione è certificata secondo i più avanzati protocolli di qualità dell’Unione Europea. Il latte lavorato, proveniente anche da comuni limitrofi, è destinato in parte al consumo alimentare e principalmente impiegato nella produzione di Parmigiano-Reggiano. Si tratta di una secolare tradizione nata proprio in questi luoghi che, oggi, ha pienamente recuperato anche il valore aggiunto delle vacche rosse di razza reggiana, insostituibile perno della nostra antica economia contadina. Negli ultimi decenni, difatti, sulle nostre mense è tornato il Parmigiano-Reggiano Vacche Rosse, prodotto con le particolari qualità del latte di queste bovine. A Campegine il custode di questa distintiva produzione è l’Azienda Agricola “Campi Rossi” di Aguzzoli Domenico e Gabriele.

Un’altra attività produttiva, tipica del campeginese e di gran parte della provincia, è la suinicoltura. Il maiale, tradizionale fonte di sostentamento delle famiglie contadine di un tempo, offre carni fresche, lardo e strutto, condimenti tipici della cucina emiliana, gli inimitabili ciccioli e soprattutto diverse qualità di salumi. Queste prelibatezze si possono trovare, ovviamente assieme all’eccellenza del Parmigiano-Reggiano, in alcuni spacci dei caseifici citati e presso l’Azienda Agricola Cantarelli.

Di buona qualità è pure la produzione di Lambrusco. La presenza e la cura dei vitigni, sul territorio campeginese si perde nella notte dei tempi. La cantina con botti, barili e file di bottiglie impolverate c’era in tutte le case contadine. L’esodo dalle campagne e le scelte di una nuova imprenditoria agricola hanno cancellato, da tempo, una viticoltura diffusa che conferiva le uve alla locale Cantina Sociale, ormai dismessa, come in molti altri comuni. Tuttavia, Campegine ospita gli impianti di Cantine Riunite & Civ, colosso della vinificazione mondiale e non mancano alcune giovani aziende di viticoltori, fra le quali Ferretti Vini che produce direttamente diverse qualità di vino, con Lambruschi autoctoni, amalgamati dalla dolce carezza dell’Ancellotta.

La tradizione degli orti, un tempo fonte di sopravvivenza, ancor viva tra la popolazione più anziana, a livello imprenditoriale è ben rappresentata dalla Società Cooperativa La Lucerna che produce e vende direttamente prodotti ortofrutticoli biologici, oltre a commercializzare altri prodotti alimentari della filiera biologica, presso la sede di Campegine e in diversi mercati delle province di Reggio Emilia, Parma e Modena.

 

CUCINA TRADIZIONALE

La cucina di questi luoghi si è lasciata alle spalle secoli di mense vuote, quando la polenta, insaporita con la saràca (salacca) o con la pistèda di aglio e cipolla o più semplicemente con…l’aria della finestra, per la gran parte della popolazione, era tra le poche possibilità di mandar giù qualcosa, magari annaffiato da vin sottile. Figlia di tempi con poche disponibilità alimentari è anche la zuppa con pane raffermo e acqua calda, condita con soffritto di lardo e, avendone la disponibilità, con l’aggiunta di formaggio grattugiato.

Sono ormai un ricordo le minestre con soffritto di lardo e cipolla. Anche le rezdōre, che tiravano la foièda (sfoglia) sulla spianatoia con il matterello, si sono rarefatte e con loro le tradizionali paste all’uovo da brodo sapientemente modellate: taiadèli, pigadèin, quadrèt, meltaiê, pasta rêsa. Eppure, la sfoglia, un tempo, vero e proprio esame di laurea delle ragazze da marito, è il primo prodotto su cui si basa la tradizionale cucina reggiana.

La sfoglia di qualità è il pregiato involucro di cappelletti e tortelli di zucca o di erbette, punte di diamante della cucina campeginese. I cappelletti sono la segreta, preziosa impronta che ogni rezdōra dona alla mensa familiare, ma anche i tortelli vanno fatti come Dio comanda, senza dimenticare gli amaretti di mandorle, nel pesto di zucca e la ricotta nel pesto d’erbe.

Ancora oggi, nonostante la dissacrante filosofia dei cibi sempre pronti, tra la popolazione anziana, non si è completamente spenta la tradizione di accompagnare le grandi festività con i cappelletti in brodo di carne, e le grandi vigilie a carattere religioso con i popolari tortelli, conditi con burro e grana oppure avvolti dal sapore antico del soffritto di lardo, cipolla e pomodoro.

Tornando al passato è sempre bello recuperare: il corroborante rīs cun la tevdūra, riso in brodo con uova sbattute e grana; il prelibato riso con la verza, minestra tanto delicata che si usava darla a bambini, anziani e malati; la panèda, zuppa di pane raffermo bollito, condita con burro e formaggio e ancora il riso al latte dolce.

A queste reminiscenze appartengono anche: l’antichissima saba, sciroppo denso e scuro, ottenuto facendo bollire mosto di uve dolci per sei, sette ore; il sabarȏt, un impasto costituito da saba bollita e pane grattugiato, in parte amalgamato con castagne secche cotte, che fungeva da pesto per un tipo particolare di tortelli, conditi con la parte rimanente dello stesso amalgama di saba e pane; il sugo d’uva, con una proporzione di quattro, cinque litri di mosto fresco e l’aggiunta di circa un kg. di farina, posti a bollire per circa un’ora, oggi proposto in versione industriale; il savorèt, marmellata che si prepara facendo bollire, a fuoco lento, mosto di uve dolci, e frutta fresca matura: pere, mele, prugne, fichi, pezzi di zucca… nella proporzione di quattro litri di mosto e due kg. di frutta, oltre un grammo di acido salicilico, per ciascun kg. di savorèt. per migliorarne la conservazione.

Alle specialità tradizionali del luogo appartiene anche lo gnocco fritto, un impasto di fior di farina, latte, olio, sale e lievito di birra, tirato, tagliato a rombi e fritto in abbondante strutto a fuoco allegro; alimento tipico delle colazioni campagnole di un tempo, che oggi imperversa nelle piazze.

Dalla pasta del pane, opportunamente stesa all’altezza di un centimetro e fatta cuocere sulla brace, si otteneva, invece, lo gnocco battuto. Una variante, ricca di fibre, era il gnȏch cm-al romşōl, un impasto di acqua e cruschello, lardo, sale e alvadōr, lievito naturale, ottenuto dalla fermentazione della pasta del pane. Quel pane che si faceva in casa; nelle famiglie più povere, con molta crusca al posto della farina. Un ulteriore compito, in genere settimanale, per la rezdōra, che provvedeva alla preparazione dell’impasto fino a tiralo con la gramola, tagliarlo e, secondo gli usi, modellarlo in diverse forme: tēra, filòn, tâi, mìca, trèsi, ciòpa, ciopèin, fino alle rosèti e altre sagome con sembianze di animali, specialmente colombe, per fare contenti i bambini.

Tra i secondi, oltre ai prodotti ottenuti dalla macellazione del maiale, non può mancare una menzione per il coniglio arrosto, preventivamente messo in concia per una notte con aglio, erbe aromatiche, sale grosso, aceto e olio, quindi rosolato a fuoco vivace in olio e burro, con l’aggiunta di vino.

Né, tantomeno, si possono dimenticare alimenti poveri come l’appetitosa sigolèda, frittata con cipollotti dal gambo fresco, aromatizzata con una leggera spruzzata d’aceto; come le frittelle di riso o di patate, rosolate in padella, con lo strutto; o come al scarpasȏt, impasto d’erbe, farina e lardo, fritto in padella, fratello minore dell’erbazzone.

Nella capiente padella di rame finiva anche il pesce fresco catturato nei canali di bonifica: alborelle, scardole, orate, lucci, cavedani… assieme alle rane, puntualmente infarinate. Quando c’era la possibilità, facevano la loro comparsa, esclusivamente nei giorni festivi, le carni lesse di manzo e gallina, sempre accompagnate dall’insuperabile salsa verde, costituita da prezzemolo, uovo, un poco d’aglio, finemente tritati e immersi nell’olio.

Nella storia culinaria campeginese sono entrate anche particolari insalate come i risòn, cicoria di campo, tipicamente invernale, che cresceva preferibilmente nei vecchi medicai, il cui indimenticabile gusto amaro era ammorbidito dal condimento ideale di lardo e cipolla soffritti. Tipica era anche l’insalata di crescione, erba acquatica dal sapore pungente, particolarmente rigogliosa nelle zone umide dei fontanili di Valle Re. Due vegetali selvatici dalle importanti proprietà depurative per l’organismo.

Non mancano i dolci. Tra questi, tradizionalmente importanti, al pari dei cappelletti, nel periodo natalizio, troviamo i tortlèin (tortellini al forno) fatti con pasta frolla ripiena di marmellata e modellati con uno stampo a mezzaluna. Una ricetta che, come tante altre, prendeva consistenza attraverso tante varianti, soprattutto per la scelta del pesto.

Non passa Carnevale senza intrigòn (specie di frappe), ottenuti con un impasto di farina, uova, sassolino, una spruzzata di vino e zucchero; spianato, tagliato a listarelle poi intrecciate e fritte nello strutto o nell’olio.

Tipici dei mesi invernali sono anche i tortellini fritti, costituiti da un impasto di farina, zucchero e strutto, con ripieno di castagne secche, cotte e spappolate, saba, zucchero e scorza di limone, fritti nello strutto e cosparsi di zucchero.

Da lungo tempo, un classico dei giorni di sagra è la zuppa inglese, dolce alla crema pasticcera e crema di cacao, guarnito con soffici savoiardi, intinti nell’alchermes dalla classica colorazione rosso cremisi.

Sicuramente più rustiche erano le mistòchi, specie di pane di forma ovale, dolcificato con ingredienti diversi, costituito da un miscuglio di farina bianca e gialla, in parti uguali, latte, zucchero, strutto e uova, quindi cotto al forno.

Ricordiamo, infine, la nutriente torta di riso, un impasto di latte e riso bollito, con zucchero, uova, limone e sassolino. Un dolce che nelle nostre zone ha radici antiche, sicuramente legate alla disponibilità di questo cereale, coltivato nelle risaie di Valle Re, già a partire dalla seconda metà del XVIII secolo e, dai primi anni del Novecento, portato nelle nostre famiglie, come parte dello stipendio, dalle mondine che, annualmente, facevano campagna nelle risaie piemontesi.

 

A questa narrazione sulla cucina campeginese, parente strettissima della tavola reggiana ed emiliana della media pianura, aggiungiamo qualche riferimento bibliografico da cui attingere gli elementi integrativi delle ricette proposte: Marta Ferrari, Ricette e racconti della mia Reggio, 1993; Umberto Bonafini, Sandro Bellei, Reggio a tavola, Modena, 1989 oltre al sito turismo.comune.re.it.

Per chi voglia approfondire la tradizione gastronomica della nostra provincia suggeriamo ancora Gianni Franceschi, Riccardo Barbieri Manodori, La cucina reggiana – Duemila anni a tavola, Reggio Emilia, 2005, oltre a un’approfondita bibliografia annotata, a cura di Giovanni Marzi, La cucina reggiana tra libri e biblioteche, Reggio Emilia, 2007, importante contributo per l’Accademia Italiana della Cucina. (Testo di Giovanni Cagnolati)

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