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I nostri

Vini

Campegine, sulla via del Lambrusco

“Aspice ut antrum silvestris raris sparsit labrusca racemis” – guarda come la vite selvatica labrusca ha diffuso sull’ingresso della grotta i suoi pochi grappoli – dice il pastore Mospo all’amico Menalca nella V Egloga delle Bucoliche del poeta latino Publio Virgilio Marone (Mantova 70 a.C. Brindisi 19 a.C.). Secondo Emilio Sereni, storico dell’agricoltura, si tratta della più antica attestazione di questo vitigno selvatico, la cui domesticazione si è compiuta nei territori della pianura Padana occidentale e, in particolare, in Emilia. Già in età preromana era in uso la tecnica di elevare le viti da questi terreni umidi e gelivi, maritandole ad alberi tutori. Con la romanizzazione della Gallia Cispadana, cui apparteneva anche il territorio campeginese, la nuova cultura agronomica romana, con la sua logica pianificatrice, apportò un notevole impulso alla viticoltura già presente, sempre più caratterizzata dal paesaggio della piantata. Dunque, a Campegine, il lambrusco è di casa da millenni.

Leandro Alberti, nelle sue celebri descrizioni dell’Italia, che risalgono al Cinquecento, annota sulla campagna emiliana: “si veggiono artificiosi ordini di alberi, sopra i quali sono le viti che da ogni lato pendono, onde se tragge ogni generazione di vino”.

Sui nostri territori la coltura della vite ebbe la sua massima diffusione a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, in corrispondenza dell’impiego di composti chimici con proprietà anticrittogamiche atte a debellare la devastante malattia fungina della peronospora. Verso la fine degli anni Venti, non c’era podere dove non si coltivasse la vite. Secondo il Catasto Agrario dell’epoca, le colture a vite nella nostra provincia erano di poco superiori ai 100.000 ettari, di cui 1500 a Campegine.

Nei decenni successivi al secondo dopoguerra, il fungo della grafiosi non lasciò scampo agli olmi, naturale sostegno dei vitigni, mentre l’avanzare della meccanizzazione agricola, impose una nuova organizzazione spaziale delle colture. Così, gradualmente, il millenario paesaggio della piantata scomparve, per lasciare il posto al moderno e vantaggioso impianto del vigneto.

Sono ancora impresse nella memoria le continue e meticolose cure che generazioni di contadini hanno dedicato alla vite, alla vendemmia, alla cantina, in un ciclo annuale quasi sacrale.

Il lavoro nelle piantate iniziava a fine febbraio con la potatura, quando i campi, spesso, erano ancora coperti di neve e proseguiva fino a metà aprile con la “tiratura” dei tralci, fissati e sospesi tra un filare e l’altro di olmi. Bisognava poi proteggere la vegetazione: dalla peronospora, con ripetute irrorazioni di verderame, servendosi di un carro botte e di rudimentali e spossanti pompe a stantuffo montate su una carriola; dal mal bianco, praticando solforazioni con pompe manuali a soffietto.

Arrivava poi al tèimp da l’uva e sulle aie si preparavano scale, scaletti, cesti, cassette da uva, assieme agli attrezzi della cantina, tini, barili e mastelli, i cui fondi erano posti in ammollo per serrarne le doghe. La vendemmia e la pigiatura dell’uva richiedevano l’impegno di tutta la famiglia, da metà settembre fino alla prima decade di ottobre. Seguivano poi i lavori di cantina, con la cura dei processi di fermentazione e decantazione del vino, fino all’imbottigliamento, dopo la metà di gennaio, appena si entrava nella fase di luna calante.

Tuttavia, la quantità di vino buono, da tenere sotto chiave (vèin da la ciavèta) che le famiglie, in gran parte a mezzadria, potevano permettersi era davvero scarsa, giusta per festeggiare le grandi ricorrenze. Ci si doveva accontentare di un vino da pasto di scarsissima qualità, quasi sempre ottenuto sfruttando le vinacce, torchiate o meno, ma sempre allungate con acqua, per ricavarne l’aspro torchiato o l’insipido mezzo vino (vèin puntalê). Gran parte dei prodotti vitivinicoli, se non erano appannaggio del padrone, erano destinati alla vendita per racimolare qualche soldo.

Nell’estate del 1950, per dare nuove certezze al settore, i viticoltori locali costituirono la Cantina Sociale di Campegine, alla quale conferivano le uve per la lavorazione e la vendita dei prodotti.

In quegli anni, nel culmine della raccolta delle uve, sulla strada che conduceva alla Cantina si formavano lunghe e caratteristiche file di carri, in attesa della pesatura e dello scarico delle colme e pesanti cassette di legno. Una storia di duro lavoro e di costante innovazione protrattasi per oltre sessant’anni.

Nel 1982, la tradizionale cultura vitivinicola del territorio campeginese accolse Cantine Riunite sotto la guida del senatore Walter Sacchetti, assieme al partner americano Villa Banfi Inch New York dei fratelli Mariani, che ebbero, tra l’altro, l’intuizione di importare il lambrusco in America. Questi stessi stabilimenti oggi ospitano la sede amministrativa e uno dei comparti produttivi di Cantine Riunite & Civ, leader italiano nella produzione e nell’esportazione del lambrusco e dei vini frizzanti emiliani.

Intanto, sul territorio si affacciano giovani imprenditori vitivinicoli determinati a tracciare nuove prospettive sulla millenaria via del lambrusco. (Testo di Giovanni Cagnolati)

Antichi vitigni molto comuni nella zona di Campegine

Uve nere e rosse

Besmèin (marzemino/berzamino/berzemino) – Sotto questo nome ricordiamo tre specie di uve diverse. Il besmèin pâs (berzamino appassito) di buona qualità, con acini sferici nero violacei, dal sapore dolce-melato così distinto, tanto che i contadini lo preferivano da mangiare e conservare a qualsiasi altra specie di uva nera. Il besmèin capòlegh (benzamino grosso) che aveva gli acini più consistenti. Infine il besmèin selvàtegh (berzamino selvatico), dagli acini rossastri, acquosi e insipidi, dai quali si otteneva un vino di scarsa qualità.

Bacùcla (bacoccola) Uva che deriva il suo nome dagli acini grossi e sferici e particolarmente resistenti.

Fogarèina (fogarina) Antica varietà a rischio di estinzione, particolarmente resistente all’oidio. Presenta una bacca nera con sfumature rossastre. Se ne ricava un vino da taglio.

Fortana – Vitigno molto produttivo. Uva dai grossi acini ovali dai quali si ottiene un vino leggero e saporito.

Insalòta (ancellotta o lancellotta) – Qualità di uva molto diffusa nel reggiano che produce un ottimo vino da taglio, sia per il suo colore nero intenso, che per il suo alto valore alcolico. Il nostro dialetto, così ne individuava due specie ben distinte: l’insalòta capòlga, dal grappolo spargolo e l’insalòta stríca, dal grappolo compatto con acini piccoli e neri.

Nigherzōl (nigorzolo/colorino) – Tipo di uva dagli acini nerissimi e lucidi che si staccavano facilmente dal grappolo sotto l’azione del vento.

Lambrùsch dal picòl ròs (lambrusco dal picciolo rosso) – Una delle varietà di lambrusco presenti nelle nostre campagne assieme al lambrusco maestri, salamino ecc. così chiamata per il colore del suo picciolo, grosso e legnoso, difficile da staccare dal tralcio con l’aiuto delle sole mani. Caratteristici sono gli acini sferici dal colore nero bluastro, dai quali si ottiene un vino saporito e vigoroso, che i vecchi di un tempo ricordano per la sua abbondante schiuma rossa.

Termarèina (termarina rossa/tramarina) uva dagli acini rossi piccolissimi, molto dolci e senza vinaccioli, per questo motivo adatta a preparare la saba, sciroppo di mosto di uve dolci e il savorèt, marmellata di mosto di uve dolci e frutta. La termarina, nel 2007, è stata iscritta nel “Registro nazionale delle varietà di vite”, come uno fra gli antichi vitigni censiti sui territori della nostra media pianura.

Togna/Togno-na – Specie di uva nera dai grossi acini ovali e saporiti, un tempo preferita dai ragazzi.

Citeremo ancora una qualità tra le più nostrane, vale a dire il lambrùsch ed Rivèlta (lambrusco di Rivalta), che resta ormai solo nel ricordo dei più anziani.

Da ricordare ancora altre due uve rosse, la rabiòsa (rabiosa), dai grossi acini ovali bruno rossastri e la rosèra (rossara), dalla buccia rosso chiara. Queste due specie di uva, di scarsa qualità, a maturazione tardiva, servivano ai contadini per incaplêr (lett. mettere il cappello) alle vinacce di uve più pregiate, con l’aggiunta di acqua.

Si otteneva in tal modo un vinello leggero e insipido vèin puntalê, noto come “mezzovino” che, per parecchio tempo, rappresentò l’unica bevanda della nostra popolazione rurale e bracciantile. Infine diremo dell’uva fravla o fragola, che per il sapore particolarissimo e ancor più per il colore marroncino dei suoi acini, era volgarmente chiamata dai ragazzi úva merdon-na, (uva merdona) anche se produceva un vino rosso chiaro di gusto inconfondibile, specie se invecchiato due o tre anni.

 

Uve bianche

Redga (retica o gradisca) – Uva dal grappolo grande, con acini grossi e sferici di colore giallo dorato. Pregiata e antichissima qualità, citata fin dal 1805 da Filippo Re. Così la descrisse il Cav. Francesco Aggazzotti del Colombaro nel suo Catalogo, Modena, 1867: Uva d’insigne merito come mangereccia che conservai fino a primavera avanzata; di un bellissimo aspetto e di un gran dolce zuccherato, tanto migliore quanto più a lungo il tempo di sua prolungata conservazione; rendendosi companatico salubre e appetitoso…”.

Grèch (greco bianco o greca bianca) – Uva dai grossi grappoli spargoli e gli acini ellissoidi, di color giallo verdastro, a maturazione tardiva.

Terbiànch nostràn (trebbiano nostrano) – Uva dai grossi grappoli con acini fitti e sferici che a maturazione completa prendevano un bel giallo dorato. Sebbene quest’uva non fosse molto gradita al palato, per il suo sapore dolciastro e acquoso, produceva un buon vino dolce e sapido.

Terbiànch ed Mȏdna (trebbiano di Modena) – Uva dal grappolo cilindrico alquanto allungato, non di rado con due e tre racimoli superiori sporgenti. A maturazione completa gli acini sferici prendono un bel colore biondo ramato. Questa era la varietà di uva bianca più pregiata della nostra zona, sia come uva da tavola, che da vino.

Ocín ed gât (occhietto/occhio di gatto – Antico vitigno minore. Uva dal grappolo mediamente denso con acini piccoli e gialli, somiglianti alle pupille dei gatti. Conferisce al vino aroma e profumi caratteristici.

A queste varietà di uve bianche, ne andrebbero sicuramente aggiunte altre, specie quelle la cui diffusione era strettamente zonale, come per esempio l’úva scandianèjsa (malvasia di Scandiano), nonché uve molto conosciute come la malvasia e il moscatello, le cui proprietà aromatiche contribuivano non poco a rendere più gustosi i nostri vini bianchi.

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